Nuove famiglie di fatto

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE I CIVILE

 

Sentenza 11 agosto 2011, n. 17195

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso ritualmente notificato, F.F. chiedeva dichiararsi, nei confronti della moglie L.P., la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con esclusione dell'assegno divorzile.

Costituitosi il contraddittorio, la L. dichiarava di non opporsi al divorzio, e chiedeva assegno per sè.

Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Con sentenza definitiva del 30 settembre - 6 ottobre 2005, rigettava la domanda di assegno della L., stante la stabile convivenza more uxorio di questa con altro uomo.

Proponeva appello avverso tale sentenza la L., ribadendo la richiesta di assegno per sè. Costituitosi il contraddittorio, il F. chiedeva rigettarsi l'appello.

La corte d'Appello di Roma, con sentenza 12 giugno - 20 giugno 2007, in parziale riforma dell'impugnata sentenza, disponeva in favore della L. assegno mensile per l'importo di Euro 250,00.

Ricorre per cassazione il F., sulla base di tre motivi.

Resiste, con controricorso, la L..

 

Il ricorrente ha presentato memoria per l'udienza.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, nonchè vizio di motivazione in ordine alla stabile convivenza della L. con altro uomo, ciò che dovrebbe escludere la corresponsione di assegno divorzile a carico dell'ex coniuge.

Per una migliore intelligenza della problematica sollevata, va considerato che una convivenza stabile e duratura, con o senza figli, tra un uomo e una donna, che si comportano come se fossero marito e moglie, è stata volta a volta definita con espressioni diverse, quali concubinato, convivenza more uxorio, famiglia di fatto, la prima connotata negativamente, la seconda di valore neutro e la terza positivamente connotata. Si può addirittura ipotizzare una sorta di passaggio, almeno in parte anche in successione temporale, dall'uso di un'espressione all'altra, che si accompagna ad un corrispondente mutamento nel costume sociale.

 

La prima fase è anche l'unica che trova (o, meglio, trovava) un preciso riscontro normativo: il concubinato (una sorta di adulterio continuato) costituiva reato, nonchè causa di separazione per colpa.

 

La convivenza tra uomo e donna, come se fossero coniugi, rilevava soltanto come forma di sanzione - e condizione necessaria era ovviamente che uno dei conviventi fosse sposato - al fine di maggior difesa della famiglia legittima. La fase del concubinato volgeva al termine, dopo una nota sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. n 167/1969) che cancellò tale ipotesi di reato.

In una diversa fase , nella quale l'espressione convivenza more uxorio andava gradualmente sostituendo quella di concubinato, prevaleva una sorta di "agnosticismo" dell'ordinamento nei confronti del fenomeno, derivante dalla mancata regolamentazione normativa di esso, e, con riferimento ai principii costituzionali, dall'art. 29 Cost., che soltanto "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio", disposizione ritenuta confermativa del disinteresse dell'ordinamento verso altri tipi di organizzazione familiare.

 

In una fase successiva, che si può collocare temporalmente alle soglie e successivamente alla riforma generale del diritto di famiglia, l'espressione "famiglia di fatto" comincia ad essere sempre più frequentemente accolta. Essa non indica soltanto il convivere come coniugi, ma individua una vera e propria "famiglia", portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione della prole. In tal senso, si rinviene, seppur indirettamente, nella stessa Carta Costituzionale, una possibile garanzia per la famiglia di fatto, quale formazione sociale in cui si svolge la personalità dell'individuo, ai sensi dell'art. 2 Cost.

 

La riforma del diritto di famiglia del 1975, pur non contenendo alcun riferimento esplicito alla famiglia di fatto, viene ad accelerare tale evoluzione di idee:

nella rinnovata normativa emerge un diverso modello familiare, aperto e comunitario, una sicura valutazione dell'elemento affettivo, rispetto ai vincoli formali e coercitivi, l'eliminazione di gran parte delle discriminazioni della filiazione naturale rispetto a quella legittima. E talora si ritiene attribuita rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, in presenza di figli, con riferimento all'art. 317 bis c.c., ove si precisa che i genitori naturali, se conviventi, esercitano congiuntamente la potestà.

Nella specie, la Corte d'Appello accerta l'instaurazione di un rapporto stabile di convivenza della L. con altro uomo: questi ha dato un apporto notevole al menage familiare, mettendo a disposizione per la convivenza un'abitazione di (OMISSIS), proprietà di una s.r.l. di cui egli detiene il 99% delle quote, la coppia ha avuto due figli, in un breve lasso di tempo (2001 - 2003); durante la convivenza matrimoniale non erano nati figli.

 

Presume la Corte di merito che gli impegni connessi alla maternità ed alìaccudimento dei bambini, ancora in tenera età, abbiano impedito "il collocamento nel mondo del lavoro della L.";

Ritiene peraltro che, benchè la volontarietà di alcune scelte di vita della L. (l'instaurazione della convivenza, la nascita dei figli, etc.), non possa farsi ricadere sul coniuge, tuttavia la sperequazione dei mezzi di questa di fronte alle disponibilità economiche del F. - che già caratterizzavano il tenore di vita durante la convivenza matrimoniale - giustifichi la corresponsione di un assegno divorzile a carico dell'ex coniuge. l'argomentazione del Giudice a quo è palesemente erronea.

E' vero che giurisprudenza consolidata di questa Corte (tra le altre, da ultimo, Cass. n 23968/2010) afferma che la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sè direttamente sull'assegno di mantenimento. E tuttavia, ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che; di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio: come già si diceva, arricchimento e potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, e trasmissione di valori educativi ai figli (non si deve dimenticare che obblighi e diritti dei genitori nei confronti dei figli sono assolutamente identici, ai sensi dell'art. 30 Cost. e art. 261 c.c., in ambito matrimoniale e fuori dal matrimonio), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto (al riguardo, Cass., n. 4761/1993).

 

A quel punto il parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner non può che venir meno di fronte: all'esistenza di una famiglia, ancorchè di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso (v. s.u. 2 punto Cass. 2003 n. 11975).

E' evidente peraltro che non vi è nè identità, nè analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto all'assegno, e la fattispecie in esame, che necessita di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale. Come talora questa Corte ha precisato (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 3503/1998), si tratta, in sostanza, di quiescenza del diritto all'assegno, che potrebbe riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto, com'è noto effettuabile ad nutum, ed in assenza di una normativa specifica, estranea al nostro ordinamento, che non prevede garanzia alcuna per l'ex familiare di fatto (salvo eventuali accordi economici stipulati tra i conviventi stessi).

 

Va pertanto accolto il primo motivo di ricorso, assorbente rispetto agli altri, attinenti alla quantificazione dell'assegno e al regime delle spese processuali cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione, che esaminerà il merito della causa, attenendosi ai principii suindicati e pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri;

cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità.